AUSCHWITZ II-BIRKENAU

le Vite | Approfondimenti

Nel corso del 1941, nell’area di Birkenau, a 3 km da quello centrale, fu costruito un altro campo per prigionieri sovietici i cui lavori iniziarono nell’ottobre. La zona era paludosa e si dovette procedere alla bonifica e al livellamento del terreno. Il progetto prevedeva un campo diviso due settori con una strada centrale: in un lato si costruirono bassi edifici in muratura, nell’altro le baracche erano stalle in legno per cavalli.

Ben presto il campo divenne il Vernichtungslager (campo di sterminio) Auschwitz II-Birkenau e fu creata una vera e propria industria della morte, pensata, progettata e attuata con un meccanismo che venne collaudato a più riprese, correggendo gli errori, migliorandone la velocità, fino alla perfezione industriale dell’annientamento di milioni di esseri umani. Nessun prigioniero arrivando a Birkenau poteva immaginare quello che sarebbe successo oltre quel fino spinato, nessuna mente umana aveva infatti mai concepito l’eliminazione di uomini, donne e bambini in una catena di montaggio i cui esecutori svolgevano lo sterminio come un lavoro.

Nell’area di Birkenau furono costruiti i più grandi impianti di sterminio del sistema concentrazionario nazista: alle camere a gas provvisorie allestite a margine del campo in case requisite ai polacchi (Bunker I e Bunker II), verso la fine del 1942 vennero aggiunte quattro costruzioni dotate di camera a gas e forni crematori, denominate Crematorio II, III, IV e V. Le prime due comprendevano camere a gas sotterranee, depositi per i corpi (con capacità di 2.000 cadaveri), montacarichi, forni crematori. I crematori IV e V avevano le camere a gas in superficie e presentavano dimensioni più ridotte. La loro costruzione fu affidata all’impresa edile Huta Hoch- und Tiefbau AG1; dell’installazione dei forni, delle camere a gas e del loro funzionamento fu incaricata la ditta tedesca di Erfurt, Topf & Söhne2.

Da tutta l’Europa occupata, a partire dal 1942, le tradotte con il carico di deportati ebrei, giunsero ad una banchina ferroviaria ad 800 metri all’esterno del campo principale di Auschwitz, la Judenrampe. Nel maggio del 1944, per facilitare lo sterminio degli ebrei ungheresi3, i binari furono portati dentro al campo, con tre binari che terminavano tra i crematori II e III, la Bahnrampe.

Sulle banchine di arrivo, i deportati (dopo giorni o settimane di viaggio infernale nei carri bestiame) erano fin da subito circondati da un’aria di morte e preda di un terrore senza scampo: le urla agghiaccianti delle SS,

“quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia di secoli” (P. Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1996, p. 16)

i cani addestrati per azzannare, i manganelli che colpivano. Poi iniziava la selezione: con la freddezza di chi svolgeva un lavoro qualunque, i medici delle SS decidevano con uno sguardo chi doveva essere inviato nelle camere a gas. Le famiglie si dividevano, gli sguardi si perdevano, le mani si scioglievano e senza che se ne capisse il motivo, i deportati venivano divisi in due colonne: da una parte quelli che erano ritenuti idonei per il lavoro e dall’altra quelli per le camere a gas, le donne con i bambini, i vecchi, i più deboli (di solito il 70-75% del trasporto, ma anche percentuali più alte, e alcune volte anche l’intero trasporto).

Il passaggio verso la morte doveva avvenire nella massima tranquillità, per evitare panico e rivolte che avrebbero reso più lungo e difficile il “lavoro”. Si ingannavano le vittime dicendo loro che avrebbero fatto una doccia; uno spogliatoio molto ordinato precedeva la camera della morte, si raccomandava ai prigionieri di ricordare il numero del loro attaccapanni, sulla porta della camera a gas c’erano apposite scritte che informavano in varie lingue che questa portava alla disinfezione e ai bagni. Poi la porta si chiudeva ermeticamente e si procedeva alla gassazione: lo Zyklon B penetrava nell’ambiente attraverso quattro finti camini in cui le SS versavano il veleno stando sul tetto, poi chiudevano le aperture con lastre di cemento. Dallo spioncino sulla porta di ferro si controllava l’andamento dello sterminio che poteva protrarsi anche per più di 20 minuti. Quando le vittime erano morte, i ventilatori provvedevano a disperdere il gas. Entravano in azione gli uomini dei Sonderkommando, composti da prigionieri, in prevalenza ebrei, che venivano scelti al loro arrivo. Poiché si voleva che lo sterminio rimanesse segreto, i componenti del Sonderkommando erano isolati dagli altri prigionieri e sistemati nei sottotetti dei crematori. Lavorare nel Sonderkommando prolungava la vita di qualche mese (tra i casi noti al massimo si è arrivati a otto mesi), dopo di che anche loro venivano di norma fucilati o mandati nelle camere a gas. Nell’aprile del 1942 il reparto era formato da 80 persone, che divennero però presto 200; agli inizi del 1944 il loro numero salì a circa 400 e poi a quasi 900 nel luglio del 1944, una vera industria che lavorò nell’ultima e più intensa fase dello sterminio di massa. Questi disgraziati, che alcune volte trovarono tra i morti i loro parenti, dovevano tirare fuori dalle camere a gas i cadaveri, estrarre i denti d’oro, togliere gli anelli dalle dita e tagliare alle donne i lunghi capelli e poi cremare i corpi4. Il Reich trasse profitto anche dai morti: l’oro dei denti veniva fuso e inviato alla Reichsbank, i capelli erano usati per farne filati e filtri per l’industria bellica, ed erano utilizzati anche per fabbricare funi e riempire materassi. Fra le ditte che acquistarono i capelli al prezzo di mezzo marco al chilo ci furono la Bremer Wollkämmerei (un’industria di Brema produttrice di tessuti pettinati di lana) e la fabbrica di feltri Alex Zink di Norimberga. Le ceneri furono usate come concime, e come materiale di riempimento durante la costruzione di strade.

Il campo di Birkenau (come quello di Majdanek vicino a Lublino) era caratterizzato dalla doppia funzione di sterminio immediato e di lavoro forzato con graduale annientamento dei prigionieri.

Coloro che erano stati selezionati per il lavoro “entravano nel campo”: nel linguaggio di Auschwitz significava che erano immatricolati mentre tutti coloro che finivano subito nelle camere a gas non ricevevano numeri di matricola e la loro memoria scompariva. Sappiamo però dagli elenchi dei trasporti il numero dei deportati arrivati e la serie delle matricole assegnate ai prigionieri destinati al lavoro5. Dal momento in cui un prigioniero “entrava nel campo” smetteva di essere un uomo con un nome e un cognome e diventava una matricola. Ad Auschwitz, unico caso tra tutti i Lager nazisti, le matricole erano tatuate sul braccio.

“In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli. […] Ci toglieranno anche il nome” (P. Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 1996, p. 23).

La trafila della registrazione, uguale per tutti i Lager nazisti, seguiva una procedura collaudata fin dal primo campo, Dachau (1933), ed era pensata per disumanizzare il prigioniero, per farlo diventare uno Stücke, un pezzo: gli uomini e le donne dovevano consegnare tutto quello che avevano, venivano rasati con brutalità in tutte le parti del corpo, disinfettati con prodotti urticanti, buttati sotto docce di acqua bollente alternata ad acqua gelata, gli si davano divise a righe o abiti logori e ripugnanti per la sporcizia e pesanti zoccoli di legno.

Alla prima fase seguiva la quarantena, periodo di durissime angherie; chi sopravviveva passava alle squadre di lavoro. Le condizioni di vita dei prigionieri erano spaventose. Per sopravvivere dovevano fin da subito adattarsi alle regole del campo: il loro nome era diventato la matricola, un numero che veniva urlato in tedesco ad ogni appello, e bisognava impararlo subito in quella lingua straniera per non finire sotto i manganelli dei kapo. Questi erano i capi baracca, scelti perlopiù tra prigionieri criminali tedeschi, che avevano pieno potere di vita e di morte sui detenuti. Gli interminabili appelli al mattino e alla sera al rientro dal lavoro erano una forma di tortura e di selezione: i prigionieri dovevano stare in piedi, sull’attenti, anche con le rigide temperature invernali, per ore quando la conta non tornava. Se spossati cadevano a terra, erano colpiti a morte. Gli zoccoli, sovente spaiati, procuravano ferite purulente: nel Lager “si moriva di scarpe”, diceva Primo Levi. Nelle baracche le condizioni erano al limite dell’umano: il sovraffollamento, la sporcizia, la totale mancanza di igiene, le cuccette piene di pidocchi e anche di escrementi, sulle quali si dormiva uno accanto agli altri, la mancanza di servizi igienici all’interno e il freddo erano tra le cause maggiori delle epidemie e delle malattie infettive6. I malati non venivano curati ed era molto pericoloso chiedere di essere ricoverati nella infermeria, il Kabe, perché era l’anticamera della selezione e della morte.

La scarsità di cibo, ridotto a poche calorie al giorno, e il massacrante lavoro rendeva i prigionieri dopo qualche mese moribondi che diventavano i Musselmänner, nel linguaggio dei Lager coloro che stavano per sprofondare, che non avevano più risorse, nemmeno psicologiche. E allora arrivava la selezione e la camera a gas.

1. La Huta, Hoch- und Tiefbau AG era una impresa tedesca di costruzioni che iniziò la sua attività all’inizio del ’900, soprattutto nel settore del cemento armato. Nel periodo del nazionalsocialismo la Dresdner Bank (la maggiore finanziatrice delle SS), era il suo principale azionista con una partecipazione azionaria del 26 per cento (Fonte: https://de.m.wikipedia.org/wiki/Huta_Hoch-_und_Tiefbau). Nella metà del 1942 l’impresa fu incaricata dalla Direzione centrale edile delle Waffen-SS di costruire, attraverso la sua filiale di Katowice, i crematori di Birkenau. Il 13 luglio 1942 la società presentò il primo preventivo di un crematorio che ammontava a 133.756,65 Reichsmark: fu subito dato dalle SS l’incarico di procedere speditamente alla costruzione. I quattro crematori di Birkenau, completi di camere a gas e di forni crematori, furono consegnati tra marzo e giugno 1943.

2. La ditta Topf & Söhne, impresa specializzata nella costruzione d’impianti per birrerie, silos per foraggi, macchinari vari e per la cremazione d’ogni sorta di cadaveri, iniziò nel 1940 a collaborare con la direzione delle SS per la fornitura di forni crematori ai Lager di Dachau, Buchenwald, Gusen e Auschwitz. Nel 1941 ricevette l’ordinazione del Crematorio II, per il campo di Birkenau: cinque enormi forni a tre camere ciascuno. Gli ingegneri della Topf & Söhne escogitarono un modello che avrebbe dovuto funzionare come una catena di montaggio: evitava cioè, con grande risparmio di tempo, le operazioni di carico e inserimento dei cadaveri uno alla volta e di svuotamento dei residui dalle camere di combustione, e risparmiava energia perché erano i cadaveri stessi a fornirla, durante la propria cremazione. Successivamente la ditta iniziò ad occuparsi anche degli impianti per le camere a gas e ad organizzare le forniture di acido cianidrico (Zyklon B). Perfezionò minuziosamente gli sfiati in modo da permettere un più frequente succedersi delle ondate di prigionieri stipati nelle camere della morte. I cinque forni crematori di Auschwitz I e di Birkenau raggiunsero la capacità di circa 4.500 cadaveri al giorno ed i tecnici della ditta fornitrice erano in permanente trasferta ad Auschwitz per seguirne il funzionamento.

3. Tra la fine di aprile e l’inizio di luglio 1944 furono deportati dall’Ungheria 437.402 ebrei (Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, vol. I, Einaudi, Torino 2003, p. 864) di cui la quasi totalità giunse ad Auschwitz.

4. Tra coloro che fecero parte dei Sonderkommando ci fu Shlomo Venezia, figlio di una famiglia ebrea italiana di Salonicco. Ci ha lasciato la sua intensa testimonianza in: Sonderkommando Auschwitz, Rizzoli, Milano 2007.

5. Di fondamentale importanza è a questo proposito il monumentale lavoro di Danuta Czech, Kalendarium. Gli avvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau 1939-1945, Mimesis, Milano 2006 (consultabile sul sito dell’ANED), che raccoglie, per lo più attraverso le fonti del museo di Auschwitz (citate APMO), tutto quanto accadeva nel campo, in una struttura cronologica giorno per giorno dal 1939 al 1945. Ne risulta una lettura essenziale non solo per gli studiosi ma anche per chi vuole entrare direttamente nella quotidianità del Lager. Il testo non è una narrazione ma inchioda il lettore alla spaventosa realtà di Birkenau proprio per la rigorosità delle fonti e l’asciuttezza con cui gli avvenimenti sono riportati, senza commenti ma terribilmente veri. Possiamo così verificare giorno per giorno l’arrivo dei trasporti, il numero dei prigionieri, quanti di essi furono inviati alle camere a gas e quali matricole furono assegnate. Oltre a questi dati sono riportati le fucilazioni, i tentativi di fuga, le partenze di trasporti per altri campi, le selezioni, i massacri come quelli degli Zingari dell’agosto 1944, la partenza per le “marce della morte” e infine lo smantellamento, l’abbandono e la liberazione del campo.

6. Per saperne di più si veda: “Rapporto su Auschwitz” in: Primo Levi, Leonardo De Benedetti, Così fu Auschwitz, Einaudi, Torino 2015.

CREDITI

Selezione delle fonti e stesura del testo a cura di Antonella Filippi; fotografie di Lino Ferracin e Antonella Filippi.

FONTI

La bibliografia sui campi di concentramento e di sterminio, in particolare su KL Auschwitz, è molto vasta; di seguito si fornisce un elenco dei volumi consultati per la stesura del testo.

AA.VV., Auschwitz. Il campo nazista della morte, Edizioni del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 1997

Danuta Czech, Kalendarium: gli avvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, 1939-1945, Mimesis, Milano 2006

Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1999

Hermann Langbein, Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, Mursia, Milano 1984

Primo Levi, Leonardo De Benedetti, Così fu Auschwitz.Testimonianze 1945-1986, Einaudi, Torino 2015

Sybille Steinbacher, Auschwitz. La città, il lager, Einaudi, Torino 2005

Shlomo Venezia, Sonderkommando Auschwitz, Rizzoli, Milano 2007

Sitografia

ANED-Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti, http://www.deportati.it/, consultato il 19 dicembre 2019 ( archiviato 15 settembre 2019).

Museo Nazionale di Auschwitz-Birkenau, http://auschwitz.org/en/more/italian/, consultato il 28 novembre 2019 ( archiviato 22 maggio 2019), versione in lingua italiana.

Museo Nazionale di Auschwitz-Birkenau, http://www.auschwitz.org/, consultato il 24 gennaio 2020 ( archiviato 15 gennaio 2020), versione integrare, in lingua inglese/polacca.

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