LE LEGGI RAZZIALI E L’ESPROPRIO DEGLI EBREI

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Sin dal Decreto del 17 novembre 1938, l’esproprio dei beni appartenenti agli ebrei divenne parte essenziale della persecuzione avviata in quell’anno dal regime fascista. Dal ’38 al ’43 le nuove norme decise improvvisamente da Mussolini prevedevano che, fra le altre limitazioni, gli ebrei non potessero possedere beni mobili e immobili oltre una certa soglia; dalle imposizioni di carattere economico – ma solo da quelle – erano esentati soltanto gli ebrei “discriminati”, e cioè coloro i quali potevano vantare meriti particolari verso la patria o verso il regime. L’obiettivo dichiarato dal regime era di cancellare la pretesa influenza “giudaica” – peraltro largamente sopravvalutata – sulla vita economica del Paese. Dal 1943 e fino alla Liberazione nell’aprile del ’45, la situazione si aggravò poi di molto. Secondo le nuove norme approvate dalla Repubblica Sociale Italiana (RSI) e messe in opera in collaborazione con i nazisti occupanti, tutti gli ebrei, senza eccezione, dovevano essere espropriati di tutto, nel quadro della politica di annientamento che avrebbe dovuto condurli alla morte nei campi di sterminio.